lunedì 6 marzo 2017

ognuno riconosce i suoi 20 - john berger



la prima volta che ho sentito parlare di John Berger è stato in gennaio, il tre, perché john berger è morto il 2 gennaio 2017, a novant'anni.
 Come al solito, tutti pare che sappiano chi è john berger fuorché io. allora, come al solito, cerco un libro in biblioteca. secondo me comunque non sono l'unica, a non conoscerlo tanto bene, visto il sottotitolo che hanno scritto a prima pagina di radiotre del 3 gennaio: è morto a novant'anni il maestro della tensione che uno pensa che sia il grande vecchio del thriller, invece berger era un critico d'arte, sociologo, scrittore e poeta. comunque, come a volte succede, trovo nella mia biblioteca uno dei suoi libri più famosi, questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell'arte e quotidianità.


è un libro strano, pieno di riproduzioni di quadri famosi in bianco e nero mescolate a foto pubblicitarie, con le parole scritte quasi tutte in grassetto e centrate, queste ultime due cose piuttosto fastidiose, per me. beh, insomma sto libro strano è rimasto un po' sotto alla pila.
poi tirano fuori di nuovo john berger, che c'era uno che diceva come è stato il suo incontro con il suo mito john berger, (l'articolo è questo)   e uno alla caccia al libro cerca il libro di john berger, e i commentatori della partita della roma la sera prima avevano detto che un giocatore, pagato un mucchio di soldi, era già la terza volta che toppava, e tre indizi, secondo sherlock holmes, hanno detto i commentatori, fanno una prova, e allora, mi sono detta, sto berger, che qualcuno lo chiama berger, qualcuno bergher, non si sa, bisogna proprio che lo leggo anch'io, e così ho iniziato a leggere e devo dire che mi si è aperto un mondo pieno di idee affascinanti e insolite sulla visione, su uno sterotipo di genere come il nudo femminile, sui rapporti di classe, su occidente e oriente e altre cose del genere.
il libro comincia con una frase seguita da un lungo spazio bianco, come dire: questa qui è importante, pensaci su un bel po' prima di andare avanti.

Il vedere viene prima delle parole. il bambino guarda e riconosce prima di essere in grado di parlare.

dopo il bianco, aggiunge:

il vedere, tuttavia, viene prima delle parole anche in un altro senso. E'  il vedere ch determina il nostro posto all'interno del mondo che ci circonda; quel mondo può essere spiegato a parole, ma le parole non possono annullare il fatto che ne siamo circondati.
p. 1 


Queste frasi mi hanno riportato alla memoria una conversazione avuta a milano un paio d'anni fa col professor del guercio dell'accademia di brera. la dottoressa mormando mi aveva invitato a una lezione di aggiornamento per insegnanti del collegio  san carlo, a milano, e il professor del guercio presentava il suo laboratorio d'arte, un'esperienza veramente interessante in cui i bambini venivano portati a lavorare sul loro ritratto proprio dentro a una galleria d'arte.
al ritorno verso la stazione, il professore che mi accompagnava in macchina mi parlava con passione della prevalenza del visivo nel mondo che ci circonda e, d'altra parte, dell'opposta predominanza della parola nel mondo della scuola, incapace di cogliere e quindi di dare strumenti per leggere e comprendere l'immagine, a suo dire assoluta protagonista del presente.
io un po' ero d'accordo, un po' no, ma al professore naturalmente non l'ho detto.
ecco, questo concetto di berger mi pare che forse spiega quello che voleva dire del guercio, e su questo sì, posso dire che è così anche per me, soprattutto se aggiungiamo quello che berger aggiunge più avanti:

vediamo solamente ciò che guardiamo. Guardare è un atto di scelta.. (...) Noi non guardiamo mai una cosa soltanto; ciò che guardiamo è, sempre, il rapporto che esiste tra noi e le cose. La nostra visione è costantemente attiva e costantemente mobile. (...)
Quando diciamo che riusciamo a vedere quella collina là in fondo, non facciamo che affermare che da quella collina è possibile vedere noi. Più radicalmente del dialogo verbale, per sua natura la vista si basa sulla reciprocità.
pp. 10-11

poi lo scorso fine settimana l'ho passato a sentire paolo nori che leggeva i matti delle varie città e che parlava di cosa vuol dire, per lui, scrivere, e ha detto una cosa che l'avevo già sentita, che lui da giovane gli piaceva disegnare e si era comprato un corso di quelli che vendono a puntate in edicola, che me l'ero comprato anch'io, guarda caso, e che nel primo fascicolo di sto corso c'era scritto che per imparare a disegnare devi imparare a guardare, che lui credeva di essere già capace, di guardare, ma poi quando ha provato a rispondere alle domande che gli faceva il fascicolo, no ne sapeva una, di come fosse il suo compagno di banco, come aveva distanti gli occhi, l'attaccatura dei capelli eccetera, e allora, ha detto paolo nori, ecco, per me scrivere vuol dire guardare.
invece lui pensava che per scrivere bisognasse usare parole difficili, che la letteratura fosse una cosa astratta, alta, lontana, e questa cosa a me stupisce sempre, anche se gliel'ho sentita dire tante volte, e mi chiedo sempre che cavolo di libri leggeva, per farsi un'idea così, che io, sarà che a sedici anni leggevo solo hemingway, pavese e dostoevskij, non so, ma cos'ha, hemingway, di letterario in quel senso lì? niente, mi pare. forse è quello, non so, ma per me, la letteratura non è mai stata una cosa lontana, difficile, alta, per me la letteratura è sempre stata una cosa che ha a che fare con la verità, che io, siccome mi piacciono le citazioni, una delle cose che scrivevo sempre nei miei diari era la frase di hemingway:
non preoccuparti. hai sempre scritto e scriverai ancora.
scrivi solo la frase più sincera che sai.